Lezioni dal COVID-19: la pandemia e i prossimi passi
in La salute globale, con la collaborazione di Marco Simonelli e Leuconoe Grazia Sisti, Editori Laterza, 2021.
Dobbiamo capire a fondo quello che sta acca- dendo e agire in maniera nettamente migliore di quanto non stiamo facendo. Gli Stati Uni- ti, l’Italia, molti Paesi europei e tanti altri non hanno gestito bene la pandemia. Se i virus ca- ratterizzano un mondo senza più confini, una pandemia richiede una migliore governance. E, in un certo senso, la crisi in cui ci troviamo oggi è una crisi, in primis, di governance, che riguarda il modo in cui affrontare i rischi che ci presenta il mondo oggi. Un mondo molto affollato, molto interconnesso, molto instabile e anche con seri problemi ambientali. Dob- biamo capire che il COVID-19 non è soltan- to una pandemia, ma anche una problematica di tipo economico molto seria e, non ultimo, una espressione dell’ambiente: la natura soffre dell’azione umana, e non è un caso che questa pandemia ci arrivi dai pipistrelli del Sud-Est asiatico.
Zone diverse del mondo reagiscono in ma- niera diversa alla pandemia, e la situazione è estremamente eterogenea. Per capire di che cosa stiamo parlando si possono citare diverse cifre. Com’è possibile che oggi, nel novembre 2020, l’Italia abbia ben 35.000 nuovi casi e ce ne siano 135.000 negli Stati Uniti, mentre la Cina, con una popolazione che è venti volte quella dell’Italia, ha 19.000 nuovi casi e l’Au- stralia 9.000? In Italia ci sono circa 618 nuo- vi casi per ogni milione di italiani, negli Stati Uniti ci sono all’incirca 408 nuovi casi per un milione di americani; in Cina sono 0,01 per un milione di cinesi e 0,4 in Australia, quindi meno di uno per milione. Perciò la pandemia si manifesta secondo due ordini di grandezza completamente diversi, quasi due mondi paral- leli: da una parte Italia, Stati Uniti ed Europa Occidentale; dall’altra Cina e Australia. Perché scelgo questi Paesi per fare un confronto? Per- ché rappresentano bene ciò che sta accadendo nella zona Asia-Pacifico. Non mi riferisco solo a Cina e Australia, ma anche a Corea, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda, Viet- nam, Cambogia, Laos, Tailandia: tutti questi Paesi sono praticamente riusciti a mettere fine alla pandemia. Parliamo di due miliardi di per- sone in una dozzina di Paesi, dove la pandemia di fatto non c’è più. Guardiamo invece a cosa succede in Europa, negli Stati Uniti e in altre zone delle Americhe. La pandemia sta facendo disastri ed è totalmente fuori controllo. Quindi bisogna cercare di capire che cosa accade oggi nelle nostre società e che cosa non ci permette di assumere il controllo di una situazione che potremmo controllare, visto che altri Paesi lo fanno.
Questa è una malattia controllabile: per ca- pirlo basta fare un ragionamento abbastanza semplice. Le persone che sono affette da CO- VID sono contagiose per circa una settimana. Se fosse possibile isolare le persone che so- no contagiate in maniera sicura – e in tutto il mondo – nell’arco di una settimana circa non ci sarebbero più persone infette che contagiano altre persone e la pandemia finirebbe. Molto semplice, no? Voi direte: «ma per favore, pro- fessor Sachs, non ci prenda in giro. Le sem- bra una cosa da dire?!». Beh, io vi posso dire: «pensate un po’, la Cina l’ha fatto, la Corea l’ha fatto, l’Australia l’ha fatto, la Nuova Zelanda l’ha fatto e così gli altri Paesi che vi ho elencato». Quindi mettere fine alla pandemia in real- tà non è impossibile, non è un’idea puramente teorica. È invece un concetto molto pratico, e funziona come vi ho illustrato.
Secondo alcuni per mettere fine alla pande- mia è indispensabile un vaccino, ma i Paesi di cui vi ho parlato non l’hanno utilizzato, perché un vaccino ancora non c’è. Ci vorranno mesi o anni per riuscire a fornire copertura vaccinale a una fetta di popolazione sufficiente a sconfig- gere la pandemia. Eppure quei Paesi ci stanno riuscendo. Quindi, cosa è successo in questi dodici Paesi, dove due miliardi di persone han- no messo fine alla pandemia?
È chiaro che esiste una serie di misure che, se attuate in maniera coerente e seguite scrupolosa- mente dalla popolazione – questa è una condicio sine qua non –, possono mettere fine alla pande- mia. L’uso della mascherina limita senz’altro la trasmissione del virus ad altri; il sistema di trac- ciamento, di contact tracing, serve ad evitare che le persone contagiate si spostino rischiando di contagiare a loro volta altre persone; le persone contagiate devono essere isolate perché non ne infettino altre, per la sicurezza di tutti.
Ma sappiamo che molti casi sono asintoma- tici e che una persona è contagiosa già prima di sviluppare sintomi. Questo non aiuta. La fase pre-sintomatica di solito dura qualche giorno, e se in questi giorni quella persona va in giro tranquillamente può continuare a contagiare altre persone senza neanche sapere di essere malata. Perciò per limitare la trasmissione bi- sogna essere molto sistematici e molto attivi, e non si può aspettare che le persone svilup- pino sintomi prima di agire: il sistema sanita- rio deve contattare tutte le persone contagiose giorno dopo giorno, ogni giorno. «Hai avuto dei contatti? Sei in isolamento? Chi hai incon- trato? Chi hai visto? Il tuo ambiente casalingo è sicuro, oppure rischi di passare l’infezione e il contagio a qualcun altro?» Individuati quei contatti, bisogna ovviamente capire se sono contagiosi, e quindi isolarli, effettuare un tam- pone e così via. Come è chiaro, tutto questo comporta «un sacco di lavoro».
I nostri governi questo lavoro non l’hanno fatto: questo dobbiamo capirlo. In Italia sono morte a oggi, novembre 2020, quasi 50.000 per- sone, negli Stati Uniti quasi 250.000. E in que- sto momento siamo in una situazione peggiore di quanto lo fossimo la scorsa primavera. Per questo parlo di crisi della governance: i nostri governi avrebbero dovuto cominciare mesi fa a individuare e implementare misure migliori, già efficaci altrove, eppure non l’hanno fatto.
I Paesi di cui ho parlato – Cina, Taiwan, Corea, Nuova Zelanda, Australia – non fanno lockdown a base di mascherine, non è così che controllano le epidemie. Hanno un approccio pubblico, una strategia mirata di sanità pubbli- ca. Non isolano tutti, non tutti si fermano: sol- tanto i contagiati, o i presunti contagiati, non circolano, mentre la maggior parte delle altre persone è libera di farlo. Ed è per questo che, in queste aree asiatiche e del Pacifico, il lockdown non è come il nostro ma il risultato è migliore del nostro. Perché non hanno bloccato l’eco- nomia: hanno bloccato il virus. E questo penso sia un punto importantissimo, che molti dei nostri personaggi politici non afferrano...
D’altronde, perché c’è stato un lockdown la scorsa primavera? L’idea era quella di gua- dagnare alcune settimane per cercare di con- trollare la situazione e sviluppare il sistema di tracciamento. E ha funzionato: se in estate, ve lo ricordo, i casi in Italia erano quasi azzerati è stato per via delle misure attuate in primavera. Il lockdown serviva a guadagnare tempo e ha avu- to successo. È a quel punto che la sanità pubbli- ca avrebbe dovuto dispiegare le proprie forze in modo consistente per controllare i nuovi focolai. Ma questo, come sappiamo, non è stato fatto in modo efficace.
Quello che sto raccomandando, quindi, non è un lockdown generale, ma un intervento profondo e mirato di sanità pubblica. È cer- tamente vero che molte persone non possono stare in isolamento perché hanno bisogno di un aiuto finanziario e di servizi, ma proprio per questo il governo avrebbe dovuto garantire a tutti un isolamento sicuro dal punto di vista dell’alimentazione, dei trattamenti urgenti e così via. Questo avrebbe dovuto essere parte di una strategia implementata dalla sanità pub- blica che avrebbe limitato con efficacia il con- tagio e, al tempo stesso, permesso all’economia di funzionare parzialmente.
In Italia come negli Stati Uniti, invece, i go- verni politici non hanno capito che lo scopo del lockdown era attuare qualche altra misura. Pen- savano che il lockdown fosse la soluzione, ma non lo è. È solo una misura temporanea che ti permette di guadagnare tempo per preparare il sistema sanitario, ma credo che questa idea l’ab- biano espressa in pochissimi. Non l’ho mai sen- tita, a dir la verità, provenire dalla bocca di nes- suno dei nostri politici, almeno non negli Stati Uniti. Cosa deprimente, se mi posso permettere, perché perfino a me – che sono un epidemiologo amatoriale – era chiaro quanto fosse importante utilizzare questo periodo per ridurre la portata del virus e contestualmente creare quelle strut- ture che ci avrebbero permesso di essere pronti, con un sistema sanitario in grado di gestire la situazione, al momento della riapertura.
Sistemi computerizzati di buona qualità, telefonate e tante persone, che possono essere formate molto rapidamente, che chiamino e leg- gano dei questionari: questo serve per un contact tracing efficace. Sapete come funzionano le cam- pagne elettorali: nel corso dell’ultima, milioni di persone hanno ricevuto milioni di telefonate da persone che gli dicevano «vota per me!», «vota per me!». Milioni di persone. Ma quando si trat- ta dell’epidemia nessuno chiama, perché non c’è un sistema organizzato nella sanità. Non fa parte delle priorità per vincere un’elezione, il contact tracing. Quindi al governo italiano direi: aumen- ta il contact tracing, semplicemente al telefono. Devi essere tu a contattare le persone, a fornire i tamponi e i controlli necessari.
Una delle cose che accadranno in futuro è che ci saranno altre malattie, ovviamente. Quindi da questa malattia faremmo bene a imparare tutto quello che possiamo. Abbiamo avuto COVID, Ebola, H1N1 e tutta una serie di altre malattie zoonotiche, negli ultimi vent’anni in particolare. Si tratta di malattie nuove, emergenti, che arri- vano molto spesso dai pipistrelli e che, secondo me, si verificheranno sempre più spesso. Quin- di dobbiamo essere molto preparati e imparare dai nostri errori, imparare dall’esperienza. In- somma, ci sono anche altri rischi, quindi non dobbiamo pensare che «se vinciamo questa, è fatta»: non finisce qui. Dobbiamo ancora fare i conti con la distruzione ambientale dovuta ai cambiamenti climatici, con la distruzione della biodiversità. È un fenomeno simile. Gli scienzia- ti stanno dicendo, con lo stesso tono accalorato con cui parlano della pandemia, che questa è una crisi altrettanto urgente.
Quindi non è il caso di ritrovarsi qui tra trent’anni a dire «forse avremmo potuto fare qualcosa» oppure «non esiste». In quest’ambito, voglio congratularmi con l’Europa per il green deal che ci aiuta ad affrontare altre crisi: i cam- biamenti climatici, l’inquinamento, l’utilizzo so- stenibile della terra. Quando questa pandemia sarà finita bisognerà che tutte le regioni abbiano un green deal. Biden lo farà e questa è un’ottima notizia, gli Stati Uniti ricominceranno a essere un partner per l’Europa. La Cina ha annun- ciato un piano simile: il presidente Xi Jinping, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha affermato che anche la Cina decarbonizzerà il proprio sistema energetico. Il Giappone ha af- fermato la stessa cosa. Quindi quello che spero è che, quando la pandemia sarà finalmente sotto controllo, non ci siano conflitti geopolitici, ma ci sia invece collaborazione e cooperazione per affrontare insieme i problemi comuni.
I cambiamenti climatici, l’inquinamento, la perdita della biodiversità e la necessità di un’ali- mentazione sostenibile e salutare sono problemi che tutti noi esseri umani condividiamo e per affrontare i quali dovremo creare un ambiente collaborativo. Secondo me, Trump è stato il peggior Presidente nella storia degli Stati Uniti e spero che Biden, che è un uomo molto grade- vole e razionale, si farà carico di uno sforzo di collaborazione globale, senza concentrarsi trop- po sullo scontro con la Cina, anzi, collaborando con essa per risolvere i problemi del mondo. Sarebbe un mondo molto migliore dove vivere. Sarebbe una grande lezione da apprendere da questa pandemia. Siamo tutti sulla stessa barca, quindi dobbiamo tutti lavorare insieme per ri- solvere i problemi comuni.